mercoledì 5 febbraio 2014

Cani selvaggi

[di Emilio Varrà]

A leggere il nuovo splendido libro di Amanda Vähämäki (Cani selvaggi), per Canicola Edizioni, nella serie degli albi di grande formato che ha già visto protagonisti Andrea Bruno, Gabriella Giandelli, Anke Feuchtenberger, e Anna Deflorian, viene in mente che Amanda non disegna le immagini, le fa apparire. Ci sono autori che invitano l’occhio al lento formarsi delle figure, il segno che via via delinea e costruisce è clessidra e bussola per lo sguardo. Altri invece che ci mettono di fronte al fatto compiuto: l’immagine è là, davanti a noi, e sta a noi ora cercare di coglierne il senso. Spesso quando accade si tratta di figure molto sintetiche, in cui l’impatto grafico prevale sul contorno.
Non è questo il caso di Amanda, che anzi utilizza matite grasse e pastose, capaci di creare corpi un po’ sgraziati, imperfetti, sudati (cioè corpi veri) o oggetti che hanno tutte le sporcature del tempo, o ancora orizzonti dalla luce indefinita, che sanno di aurora e crepuscolo allo stesso tempo. Eppure il senso di apparizione prevale su tutto, perché quello che i suoi disegni comunicano è prima di tutto il grado zero, il vuoto che c’era un momento prima.



Lo capiamo subito, alla tavola che apre il libro, un'unica immagine con un ragazzino su una barca a remi intento a leggere un vecchio fumetto e la grande campitura di mare e cielo. Questo spazio insondabile è la materia prima da cui nascono le cose, le persone, gli animali, tutti accomunati da questa origine e per questo senza una vera gerarchia tra di loro. C’è un branco di cani divenuti randagi che sembrano fare da padroni, una gatta trovata  morta con la gola lacerata poco dopo aver dato vita a dei micini, un enorme pedalò a forma di cigno che riappare dalle profondità del mare e genererà una nidiata di anatroccoli, una comunità di ragazzini che porta avanti l’unica abitazione ancora degna di tale nome, che è anche bar o locanda, nella quale si raduna un’umanità grottesca e sparuta, di cui è impossibile costruire parentela, genealogia, relazioni, tanto è diversa nei suoi individui.

Tutti sembrano avere però la medesima tensione, che è quella della pura sopravvivenza, di mettere in fila azioni e gesti per dire “ci sono”, prima che il vuoto, e con esso l’oblio, si rimangi tutto.
Una volta sembra essere già successo: in un passato indefinito, ma abbastanza recente, c’è stata una “distruzione” che ha azzerato la civiltà, e con essa la memoria. Pochi i resti del passato, qualche fumetto, la pubblicità di prodotti in offerta letti come una storia avvincente, foto di famiglia in cui pochi si sanno ancora riconoscere e conservano un nome. Perché in questa vita “al grado zero” anche i nomi sembrano essere scomparsi, spazzati via dalla catastrofe, insieme allo stesso fluire del tempo e alla possibilità di poter collegare le cose sulla base di una cronologia e di un significato.


La logica compositiva di Amanda diventa in quest’ottica una visione del mondo: la regola non è la concatenazione, ma la giustapposizione di immagini: ognuna nasce dal nulla, apparizione appunto, anche quando micro-sequenze sono riconoscibili. Separate da solo un segno di matita, senza vero margine tra una vignetta e l’altra, costruiscono mosaici incerti e claudicanti, che inutilmente si cerca di ricomporre in intreccio, visione complessiva, orizzonte di senso. Non a caso non riesco a immaginare il luogo in cui si muovono i personaggi se non come un’isola, pezzetto di terra gravitante sul vuoto, tessera di mosaico anch’essa, alla deriva.


 Non aspettatevi però aperte denunce, distopie compiaciute, lotte per la sopravvivenza, e neppure un registro dolente, da compianto. Il tono della narrazione è neutro e lascia semplicemente che le cose esistano, nel presente della loro epifania, davanti ai nostri occhi, a compiere la breve traiettoria di un’azione: seppellire la gatta morta, allattare con un biberon da bambola i micini orfani, godersi i tuffi dal pedalò appena apparso, preparare una zuppa di “pesce falso” per una sorella (se sorella è) febbricitante. Sono tutte azioni compiute dai più giovani, gli unici che sembrano ancora avere l’energia e la lucidità per farlo.


Non hanno particolare importanza né esito, eppure per il fatto stesso di compierle suonano come un atto  di resistenza. Perché quando gli orizzonti del passato e del futuro si richiudono in sé, anche le minime traiettorie di un gesto diventano dichiarazione di volontà, certificazione di un’esistenza. In attesa che dal nulla possano arrivare apparizioni inattese, piccoli brandelli di prospettiva anche solo nella forma di cucciolate che hanno in sé l’impronta del giorno in cui saranno grandi. O che possano riesistere i nomi, come quelli con cui inaspettatamente la ragazzina chiama i cani che pensavamo anonimi e randagi, ed essi rispondono, avvicinandosi e guardandola.  Solo uno sembra sconosciuto, e riceve il suo nome nell’ultima vignetta. Un battesimo, se non un nuovo inizio.

Ringraziamo la rivista Lo Straniero per averci autorizzato a pubblicare questo articolo, uscito nel numero di febbraio 2014. Il post Cani selvaggi è uscito in contemporanea sul nostro blog e sul magazine quotidiano fumettologica.it

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