mercoledì 29 gennaio 2014

Pomeriggio in una scuola media

[di Gioia Marchegiani]

Questa volta sono arrivata mezz'ora prima dell'orario di apertura. La volta scorsa, infatti, arrivare con calma ha significato trovare ben 50 nomi davanti al mio, e rientrare a casa con niente di fatto, con gran delusione di Alice che fremeva all'idea di sapere.
Ma sapere cosa, poi, figlia mia!?
Quanto amor proprio. E quanta fragilità in questi ragazzi. A cui evidentemente ancora non siamo riusciti a far capire che il valore di quello che si è, a scuola e fuori, non lo può stabilire un giudizio né, tanto meno, un numero.

Insomma, arrivata davanti all'ingresso della scuola, non ero certamente la prima. Già un bel gruppetto se ne stava lì, bello compatto davanti alla vetrata. Mi sono immaginata la scena vista dall'interno, dove tre bidelli ci guardavano col sorriso di chi ha la chiave della gabbia. Anche se, in realtà, in gabbia ci stavano loro.

E allora che ci stavamo a fare noi, lì fuori, a prenderci contro per entrare? In attesa, come domatori pronti a entrare nella gabbia dei leoni o forse come adolescenti che smaniano per entrare al concerto del loro cantante preferito.
Raggiungere la vetrata dove erano esposti i nomi dei docenti e le classi dove li avremmo trovati, è stata un'impresa. Ho giurato di fare presto, di disturbare solo per il tempo di una foto col cellulare (evviva la tecnologia!), per poi tornare da brava al mio posto che, prudentemente, avevo chiesto a un complice di tenere occupato con la promessa di condividere con lui la foto della lista.

Tornata a posto, ho preso un foglietto e impugnato la penna. Avremo anche i cellulari, ma i cari, vecchi sistemi sono sempre i migliori. Anche perché, vuoi mettere quanto sia più pericolosa una penna, rispetto a un touch screen, se usata come arma!?
In quel momento, mi sono guardata intorno e mi sono accorta che tutti avevano avuto la mia stessa idea, ma soprattutto ho capito per quale motivo una penna serviva davvero: semplicemente per scrivere il proprio nome sulla lista dei colloqui Quindi, ognuno se la teneva ben stretta, a mo' di arma contundente... E così, naturalmente, ho fatto anche io.

Alle 16 e 32, la porta si è aperta e un'onda anomala di teste, cappotti e penne si è riversata nell'androne. Giusto il tempo di precipitare dentro, come buttati da una mareggiata.
In quel momento mi sono sentita felice, e davvero l'impressione è stata quella di essere un'adolescente che è riuscita a entrare al concerto del suo cantante preferito.
Peccato che lì ad aspettarmi ci fossero solo bidelli inferociti, scale da salire di corsa e soprattutto una ansiogena ricerca dell'aula giusta...

Sì, perché le aule non sono disposte in ordine alfabetico e numerico. Che senso avrebbe? Quindi, gran avanti e indietro generale alla ricerca della 3H, dove aspetta matematica, della 2N, dove c'è geografia, della 3D, dove avrebbe dovuto esserci italiano, ma che poi, per mia fortuna, all'ultimo momento è finito in 3G, al piano terra...

Per mia fortuna perché sono stata una delle prime ad accorgermene e, naturalmente fino a che non ho piazzato il mio cognome al terzo posto della lista, mi son ben guardata dal dirlo a qualcuno. E solo dopo, con falsa generosità, ho elargito la notizia a chi chiedeva informazioni.

Nel giro di cinque minuti ho piazzato le mie firme. Dopo non è rimasto che attendere.

Nel frattempo, i corridoi si erano riempiti. Così, fuori dalle classi i genitori in attesa si sono messi a parlare, a chattare e qualcuno, come sempre, anche a litigare.
La volta scorsa, in previsione dell'attesa, mi ero portata un libro. Ma poi non l'ho neppure aperto, eppure per quante persone avevo davanti probabilmente lo avrei finito. Ma leggere in un angolo di corridoio, con poca luce, seduta su una vecchia cattedra per due o tre ore, senza la certezza di farcela a incontrare il leone, ops! scusate l'insegnante, non avrebbe fatto onore allo scrittore. Questa volta il libro lo avevo dimenticato per la fretta di uscire in tempo e, ahimè, avevo scordato anche il mio sketch book.

In genere, vado di mattina ai colloqui con i docenti, uno dei tanti vantaggi del lavoro che svolgo nel mio studio, a casa.
Ma questa volta mi sono detta: “Vediamo come funzionano gl incontri pomeridiani. Vediamo se sono fattibili.” Quella dei colloqui è una realtà che appartiene al mondo della scuola: ci sono passata io, da bambina, ci si trova ora Alice, e poi ci passerà Chiara. Tutto sembra essere rimasto uguale, come se non ci fossero stati cambiamenti in questi anni. Invece c'è ne sono stati, eccome.

Intanto, se penso ai miei genitori o a quelli dei miei compagni, questa necessità di incontrare i professori non era sentita così come lo è oggi. Si aveva più stima e fiducia e considerazione per la categoria a cui era affidata la formazione dei propri figli. E poi si aveva la sensazione, a volte era anche solo una sensazione, che tutto fosse sotto controllo: a casa e a scuola.

Fermo restando che i bravi insegnanti, così come quelli cattivi, ci sono sempre stati, oggi mi sembra ci siano ragioni diverse per cui si sceglie di insegnare. In certi casi, si ha la sensazione che gli insegnanti per primi abbiano perso convinzione, rispetto al valore del proprio compito. E che ognuno proceda a modo suo, con il suo metodo, frutto spesso di un adeguamento da una parte a un sistema che non sostiene, a una società che non riconosce il valore del buon operare, dall'altro al livello della classe e degli alunni che la compongono.

E la stessa cosa accade nelle famiglie: genitori e ragazzi, fuori e dentro la scuola, una volta capito come funziona, si adeguano, in base a quello che viene richiesto, spesso con poca passione e poche motivazioni all'idea di impegnarsi, di spendersi.

Eppure stando a quanto questi colloqui sono frequentati, sembra che noi genitori ci teniamo molto che i nostri figli facciano 'bella figura'. Ma il come e il perché, evidentemente, cambiano. A volte ho l'impressione che tutto si riduca a una ostentazione, a una corsa a essere i primi: primi a scuola, nello sport... per qualcuno va bene anche solo primi in quel che si ha, come un cellulare di ultimissima generazione. È una specie di corsa ad accumulare punti di vantaggio per far fronte a un futuro sentito come incerto e precario.

E una corsa, infatti, è stata anche quella che abbiamo dovuto fare il giorno dei colloqui, per aggiudicarci il posto più vicino all'ingresso, il posto più in cima alla lista dei nomi.
Per poi ritrovarci lì, in attesa. Singoli individui senza un senso vero di collettività. Senza una reale condivisione di percorso e di quello spazio-casa che è la scuola (o che, personalmente, credo, potrebbe essere).

A parte i consueti problemi di incuria e fatiscenza di quei corridoi, su cui come fiori spiccano i lavori di arte dei ragazzi, e a parte il mio temperamento evidentemente schivo, mi sono chiesta: se questi siamo noi adulti, come saranno i nostri ragazzi?

Probabilmente non avranno il problema dei colloqui con i docenti, perché anche quelli si faranno online, come già si fa per le pagelle, con tanti problemi in meno per tutti. Niente corse. Niente sorrisi e fredde strette di mano. Ma, certo, senza neppure quella sensazione istantanea di sentirsi come adolescenti che entrano al concerto del loro cantante preferito...

Ho scritto questo post dopo aver riguardato gli schizzi che, il giorno dei colloqui, mentre aspettavo il mio turno, ho tracciato col dito indice sullo schermo del mio smartphone, ormai vecchio, ma che mi è stato utilissimo.



1 commento:

Anna ha detto...

Gioia, grazie, bello questo scorcio di vita. E STUPENDI gli schizzi: vivi, parlanti, mi piacciono tantissimo.


Parte della confusione e della depressione nella mia adolescenza la devo a un pomeriggio così, alla fine delle scuole medie. I professori si erano riunti per indirizzare i genitori nella scelta del nostro futuro scolastico. Ai miei genitori, me presente, dissero che non ero in grado, secondo loro, di affrontare un liceo, che consigliavano un qualche istituto tecnico. Ricordo ancora la sensazione di bruciore al viso e intensa vergogna, mentre tornavamo a casa a piedi. Ci ho messo molti anni a prendere fiducia nel fatto che si erano sbagliati.