venerdì 19 ottobre 2012

Cani e bambini

Fra le nostre letture estive di quest'anno, c'è stato anche il sublime Gli autonauti della cosmostrada di Julio Cortazar e Carol Dunlop, di cui abbiamo brevemente parlato qui. Un libro che racconta di un viaggio a tappe in autostrada da Parigi a Marsiglia, su un furgoncino rosso Volkswagen (come la Topomobile), chiamato in omaggio a Wagner, Fafner, ovvero il Drago. Dove 'viaggio in autostrada' significa, letteralmente, che questa non è mai stata abbandonata, e che durante i trentatré giorni del viaggio, ne sono state visitate tutte e sessantasei le piazzole, con soste in ognuna di esse, per dormire, mangiare, leggere, riposare, e naturalmente osservarne la natura, la vita, l'umanità, gli spazi, l'epica. Una sorta di 'metaviaggio', si potrebbe dire, quindi. Se non fosse che in questo progetto nulla c'è di forzato o intellettualistico: i viaggiatori sono d'eccezione, e il loro spirito lieve e luminoso si sposa a ogni visione facendone il resoconto da grandi avventure e osservazioni in terre esotiche. Del resto, come ha scritto Neruda: «Chi non legge Cortazar è spacciato. Non leggerlo è una malattia molto seria e invisibile, che col tempo può avere conseguenze terribili.»
Vi riportiamo un brano bellissimo, dedicato a cani e bambini, e ai loro padroni, nelle piazzole di servizio.


Li liberano per cinque minuti, a volte mezz'ora, da quelle incomprensibili prigioni mobili che accettano rassegnati o furiosi, e la loro condotta nelle aree di sosta mostra l'allegria della libertà nella forma più tumultuosa: correre, alzare la zampa per cinque o sei volte per non esaurire il piacere  su un solo tronco d'albero quando ce ne sono tanti e tutti diversi, annusare tutto l'annusabile e infine avviarsi verso coloro che possiedono l'eminente virtù di avere un panino in mano o qualche fetta di salame sul tavolo. I cani dell'autostrada non hanno assolutamente fame, chiedere qualcosa è un semplice pretesto gentile per insaturare un rapporto e dimenticare per un attimo la prigione che li aspetta e da cui cercano di allontanarsi nonostante quegli snervanti fischi di richiamo che sono come il titolo di proprietà borghese su cani e a volte sulle mogli.
Vengono da noi perché ogni cane sa benissimo quali sono gli umani che amano i cani, e perché un boccone in più aumenta la felicità del bosco tra i diversi episodi silvestri che punteggiano la breve tappa fuori dal carcere.
Ce ne sono di grandi, dall'aria un po' tonta che vagano a volte un po' sperduti, i loro padroni si sono fermati a viaggiare  e a chiacchierare e non se ne occupano, e allora bisogna aiutarli, come due giorni fa con quel cagnone di razza indefinibile che, liberato da un furgoncino appena più grande di lui, ci ha guardati con infinito sconcerto scoprendo che dal rubinetto dell'acqua accanto ai bagni non usciva una goccia malgrado lui ci mettesse il muso sotto, che era bello grosso, e sembrava in attesa che il rubinetto rispondesse come avrebbe dovuto fare se non fosse stato per natura incapace di comunicare con il mondo canino. È toccato a Carol aiutarlo e guadagnarsi grandi scondinzolate di gratitudine e umide carezze, ma quasi sempre sono loro ad aiutare noi, a ricordarci che non siamo soli, circondati da quei proprietari di cani che rìgirano in orbite lontane e scontrose, così attenti alle loro macchine e così incuranti della vita con la scusa delle vacanze e del riposo.
Siccome i bambini sono uguali ai cani, per fortuna andiamo d'accordo anche con loro, perché rispondono al saluto, sono contenti del fatto che siamo contenti di vederli, e anche se i loro proprietari non gli danno neppure lontanamente la stessa libertà che danno ai cani, spesso riescono a scappare e ad addentrarsi per qualche metro nei boschi prima che una madre o un nonno produca un ruggito di allarme e di anatema e si precipiti a cercarli con un sorriso affettuoso dietro al quale ci sono trentadue denti in bella vista. Ma loro riescono quasi sempre a sfruttare la loro fetta di libertà, come i cani. Oggi pomeriggio, per esempio, ho visto da lontano che dei genitori discreti davano le istruzioni necessarie al loro bambino di quattro anni perché si allontanasse dal prato troppo sotto gli sguardi altrui e andasse a fare pipì fra gli alberi. Il bambino mi ha visto seduto all'ombra di una quercia e la sua prima reazione è stata di perplessità, seguita da una pausa durante la quale sembrava studiarmi con quell'aria solenne che in loro accompagna ogni giudizio di valore, poi, continuando a guardarmi, si è abbassato i pantaloni, ha afferrato con fermezza il suo pisellino e si è lasciato andare alla delizia di ogni Manneken Pis come se la mia compagnia lo riscattasse da tante raccomandazioni di pudore e come se in qualche modo stesse facendo pipì sulle scarpe di suo padre, cosa che spero farà davvero fra qualche anno.


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