mercoledì 2 maggio 2012

Dal chiasso alla parola / 4. Nel grande mistero

Una buona ragione per assegnare i Nobel per la letteratura è quella, molto concreta, di fare uscire dall'ombra della fama settoriale (o nazionale o dell'area linguistica) talenti eccezionali, perché i lettori di tutto il mondo ne possano godere. È accaduto nel 1996 con la Szymborska, autrice poco prolifica che si è guadagnata fama eterna con duecento liriche (o almeno così narra il mito) - e sia lode eterna agli attempati accademici di Svezia che sembrano così rigidi, grigi e istituzionali, e invece hanno l'occhio lungo e vispo -, e con tanti altri scrittori.
Nel 2011, è stata la volta del poeta svedese Tomas Tranströmer (in Italia edito da Crocetti). Claudio Magris, che nel 2004 gli ha assegnato il Premio internazionale Nonino, definisce la sua “una poesia orfica che esorta l'ineffabile”. Oggi qui, però, parliamo di Tranströmer per la sua breve, e imperdibile, autobiografia d'infanzia e adolescenza I ricordi mi guardano pubblicata da Iperborea che ha il merito di traghettare fino alle nostre sponde mediterranee perle sconosciute della cultura nordica.


Tranströmer, che nella vita ha esercitato la professione di psicologo presso un carcere minorile e in un ufficio di collocamento statale, mette mano ai suoi ricordi infantili con misura e capacità di sintesi. In meno di ottanta pagine, dà conto al lettore della complessa età infantile, e della giovinezza, vedendone in trasparenza la profondità e ricchezza da fondale marino. E, in otto laconici capitoli, dall'acqua tersa della memoria porta alla luce scintillanti campioni di memoria e vita interiore che a chi legge fanno l'effetto di vere e proprie illuminazioni. D'altra parte, come si legge nella breve e bella nota di Fulvio Ferrari: «Significativamente questo breve libro di ricordi si conclude con la scoperta, da parte del Tranströmer liceale, della metrica classica, della capacità della forma di elevare il banale al sublime, di rilevare gli abissi di senso che si nascondono dietro le apparenze del quotidiano, abissi che una lingua non poetica non è in grado di circoscrivere e tantomeno di afferrare.» Convinti come siamo, insieme a Kipling (fra i tanti), che i primi anni della vita umana rappresentino un momento di importanza centrale nella formazione dell'identità (idea alla base della collana Anni in tasca, narrativa e graphic), ci sembra necessario segnalare questo libro a chi coltivi la medesima idea. Sono stata molto incerta sul brano da scegliere, per offrire un saggio della scrittura e della tonalità emotiva di questo libro. Alla fine mi sono risolta per questo, dedicato ai musei.




Più o meno ogni due domeniche andavo al museo di Storia Naturale. Prendevo il tram fino a Roslagstull e facevo gli ultimi chilometri a piedi. La strada era sempre un po' più lunga di quanto non pensassi. Ricordo benissimo queste spedizioni, tirava sempre vento, il naso gocciolava, gli occhi lacrimavano. Non ricordo invece nessun percorso inverso, è come se non fossi mai tornato a casa, ma solo andato, in un perenne pellegrinaggio pieno di aspettative, moccioso e lacrimante, verso il colossale edificio babilonico.
All'arrivo ero salutato dagli scheletri degli elefanti. Quasi sempre andavo direttamente al reparto «vecchio», con i suoi animali imbalsamati già nel Settecento, in parte impagliati in modo piuttosto rozzo, con le teste gonfie. Eppure c'era in quel luogo una magia particolare. I grandi ambienti artificiali con i loro modelli di animali realizzati con eleganza, al contrario, non mi attiravano – era un forma di illusionismo, roba da bambini. No, doveva essere chiaro che non si trattava di animali vivi. Erano imbalsamati, erano al servizio della scienza. La scienza cui mi sentivo vicina era quella di Linneo: scoprire, raccogliere esaminare.



Il museo veniva esplorato da cima a fondo. Mi soffermavo a lungo fra le balene e nel reparto di paleontologia. Poi arrivava il reparto dove mi trattenevo di più: gli invertebrati. Non avevo mai contatti con nessun altro visitatore. In effetti non ricordo nemmeno che ce ne fossero, di visitatori. Gli altri musei che mi capitava di visitare – il Marittimo, l'Etnografico, il Tecnico – erano sempre pieni di gente. Il museo di Storia Naturale, invece, sembrava aperto solo per me.
Un giorno mi imbattei in un mio simile. No, non un visitatore, un professore o qualcosa del genere. Lavorava al museo. Ci incontrammo nel reparto degli invertebrati, si materializzò improvvisamente fra le vetrine, quasi piccolo come me di statura. Borbottava fra sé. Intavolammo subito una conversazione sui molluschi. Era così distratto o privo di pregiudizi che mi trattava come un adulto. Era uno di quegli angeli custodi che ogni tanto apparivano nella mia infazia e mi sfioravano con le loro ali. La conversazione portò al permesso speciale di accedere a un reparto non destinato al pubblico. Ricevetti un sacco di buoni consigli su come imbalsamare i miei animaletti e rifornito di provette che sembravano far parte di un'attrezzatura veramente professionale.
Collezionai insetti, e soprattutto scarafaggi, dagli undici anni fino, più o meno, ai quindici. Poi furono gli interessi concorrenti a prevalere, soprattutto artistici. Che malinconia che l'entomologia dovesse cedere loro il posto! Volli convincermi che fosse qualcosa di temporaneo. Di lì a una cinquantina d'anni avrei ripreso a collezionare.



L'attività cominciava in primavera, ma naturalmente era soprattutto d'estate che fioriva, nell'isola di Runmarö. Nella casa di campagna, dove non avevamo che pochi metri quadri per muoverci, c'erano barattoli di vetro con insetti morti e una teca per le farfalle. E sopra ogni cosa aleggiava un odore di etere che fluttuava anche intorno alla mia persona, visto che avevo sempre in tasca un barattolo di quel prodotto insetticida. […]
Ero sempre fuori in perenni spedizioni. Una vita all'aria aperta senza il minimo interesse salutistico. Non avevo ovviamente alcun punto di vista estetico sulle mie prede – si trattava di Scienza – ma senza rendermene conto feci molte esperienze di bellezza. Mi muovevo nel grande mistero. Imparavo che la terra era viva e che esisteva un mondo infinitamente grande che strisciava e volava e viveva la sua ricca vita senza curarsi minimamente di noi.
Una frazione di frazione di quel mondo l'avevo catturata e appuntata nelle cassette che posseggo ancora. Un mini museo segreto cui raramente rivolgo il pensiero. Ma sono sempre lì, gli insetti. Come se aspettassero il loro momento.


Le immagini di questo post sono del fiammingo Jan van Kessel, (Anversa, 1629-1679), appartenenti alla serie Insects and fruit.

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